GLI DEI DOPO LA CADUTA. L’APOLLO SAUROCTONOS E IL SEGRETO DEI SUOI OCCHI.

Apollo Sauroctonos Louvre

Copia romana da Prassitele, Apollo Sauroctonos, Parigi. Museo del Louvre.

Ad Atene, quel giugno del 430, l’estate era iniziata con il ricordo dei lamenti funebri durante la cerimonia invernale in onore dei caduti. La campagna non aveva consegnato i frutti consueti che, in tempi diversi, sarebbero stati abbondanti. Si diffondeva nell’aria l’odore acre degli incendi e chi avesse voluto appurare con precisione cosa stesse avvenendo fuori, nella splendida chora, avrebbe dovuto recarsi sulle mura e osservare le devastazioni degli Spartani e dei loro alleati. I soldati del Peloponneso, non potendo forzare le mura di Atene, si erano dati a quelle imprese vigliacche che disonorano le campagne militari: bruciavano campi, distruggevano fattorie, uccidevano animali. Qualche volta si avvicinavano alle mura, beninteso a distanza di sicurezza, per scagliare insolenze sugli Ateniesi e i loro comandanti.

La città non era mai stata così affollata. Vicino alle mura, sistemati in baracche d’emergenza, migliaia di contadini si accalcavano in attesa di poter tornare alle loro abituali occupazioni. Rivoli di liquame tracimavano dalle fosse e scorrevano in canali di scolo improvvisati. Confusione, polvere, immondizie e senso generale di scoramento: questo era Atene quell’estate.

In breve un nuovo contendente si aggiunse alla guerra tra Ateniesi e Spartani: la peste. Così la ricorda Tucidide:

[…] nulla potevano i medici, che non conoscevano quel male e si trovavano a curarlo per la prima volta – ed anzi erano i primi a caderne vittime in quanto erano loro a trovarsi più a diretto contatto con chi ne era colpito –, e nulla poteva ogni altra arte umana; recarsi in pellegrinaggio ai santuari, consultare gli oracoli o fare ricorso ad altri mezzi di questo tipo, tutto era inutile. Alla fine, sopraffatti dal morbo, desistettero da ogni tentativo. […] I santuari in cui si erano accampati [ i moribondi] erano pieni di cadaveri, la gente moriva sul posto, poiché nell’infuriare dell’epidemia gli uomini, non sapendo cosa ne sarebbe stato di loro, divennero indifferenti alle leggi sacre come pure a quelle profane. […] La paura degli dei o le leggi umane non rappresentavano più un freno, da un lato perché ai loro occhi il rispetto degli dei o l’irriverenza erano ormai la stessa cosa, dal momento che vedevano morire tutti allo stesso modo, dall’altro perché, commesse delle mancanze, nessuno sperava di restare in vita fino al momento della celebrazione del processo e della resa dei conti. La pena sospesa sulle loro teste era molto più seria, e per essa la condanna era già stata pronunciata: era naturale quindi, prima che si abbattesse su di loro, godersi un po’ la vita.”.

Settant’anni dopo l’ateniese Prassitele, scultore figlio di scultore, diede forma a un sentimento che da quell’infausta estate si era accresciuto e diffuso in modo allarmante: gli dei erano precipitati dall’Olimpo e si mescolavano agli uomini rivelando i propri limiti. Non v’era più distanza reverenziale, erano vulnerabili, fallibili e capricciosi, esposti allo sguardo ravvicinato e cinico di chi era stato deluso nel momento più terribile. Per la verità quegli stessi dei avevano avuto anche in passato caratteristiche “speciali”. Erano immaginati sottomessi a una forza superiore, il Fato; poteva persino accadere che Venere fosse ferita da Diomede mentre tentava di difendere il figlio Enea. La cosa doveva essere ben chiara agli Ateniesi se si considera che nel frontone orientale del Partenone la dea era stata scolpita da Fidia, memore dell’episodio omerico, adagiata e in lacrime sul grembo della madre, Dione.

Atene e Sparta avevano fallito. La polis era stata depotenziata da leghe e confederazioni che avevano spostato il baricentro politico in centri decisori sovraffollati. La tronfia certezza degli Ateniesi in una supremazia intellettuale, morale, politica ed economica si era dissolta nel volgere di pochi decenni.

 Prassitele Venere Apollo Hermes(1)

Le tre più note statue scolpite da Prassitele mostrano quanto problematico fosse l’atteggiamento dell’artista nei confronti degli dei. L’Afrodite Cnidia, l’Apollo Sauroctonos e Hermes con Dioniso bambino rivelano un nuovo approccio alla rappresentazione. Non consentono infatti all’osservatore una contemplazione disinteressata di una perfezione sensibile (che pure esiste), ma lo sfidano a fare i conti con l’inquietante evanescenza delle categorie morali tradizionali e lo costringono drammaticamente a scoprire la fine di un caposaldo, il kalos kai agathos (ciò che è bello deve essere necessariamente buono). Per Prassitele si può essere casualmente inverecondi, inutilmente crudeli, puerilmente fatui e conservare intatta la perfezione formale.

Dell’Apollo Sauroctonos (alla lettera “uccisore di lucertole”) esistono innumerevoli copie romane di un originale in bronzo (1) forse perduto. Non abbiamo notizie sul luogo in cui la statua era custodita, ma alcuni ritengono che fosse in un tempio dell’Asia minore forse nella città di Apollonia al Rindaco. Nelle copie romane -che presentano a volte variazioni più o meno importanti- ci appare un giovinetto “molle”, delicatamente poggiato col braccio sinistro ad un tronco, le gambe incrociate e i piedi uno dietro l’altro in una postura ondulosamente languida. Lo sguardo, intento e al tempo stesso inespressivo, si concentra su un piccolo animale che si suppone stia risalendo il tronco. Non è chiaro se si tratti di una lucertola di dimensioni maggiorate(2), di un ramarro o di una salamandra. Se il rettile si trovi lì per sua incommensurabile sfortuna o perché attirato in una puerile trappola: la mano sinistra del giovane Apollo è innaturalmente piegata per cui, escludendo possa aver impugnato in origine un oggetto (un arco?), possiamo immaginare che stia tenendo sospeso un filo sottile con un’esca per attirare la sua vittima. Nella mano destra, tra pollice e indice doveva trovarsi un oggetto insidioso, uno stilo, dicono e ripetono in molti. Perché non una freccia vista la letale abilità di arciere che il mito attribuisce ad Apollo? Si potrebbe immaginare una soluzione formale analoga a quella elaborata dal Bernini quasi duemila anni dopo per l’ Estasi di Santa Teresa.

Gianlorenzo Bernini-Estasi di Santa Teresa-dettaglio(1)

GianLorenzo Bernini, Estasi di Santa Teresa, Roma. Chiesa di Santa Maria della Vittoria

Detto questo resta da comprendere il senso vero della rappresentazione.

Tradizionalmente si ritiene si tratti di una versione di Apollo Alexikakos cioè protettore dal male. Sappiamo che Apollo era anche dio della luce e, in quanto dispersore di tenebre, difendeva gli uomini da molti pericoli: così agli epiteti alexikakos e apotropaios si aggiungevano quelli di smintheus (difesa dal morso dei topi) e parnopios (scudo contro le cavallette e le locuste).

I modelli apollinei più noti -scolpiti senza dubbio per celebrare i suoi benefici poteri- appaiono però molto diversi dal Sauroctonos. Pausania nella “Descrizione della Grecia” [I, 3, 4] scriveva:

Innanzi al tempio [tempio di Apollo Patroos nell’Agorà di Atene] Leochares scolpì un Apollo e Calamide l’altro, che chiamano Alexikakos. Dicono che il dio avesse un tal soprannome, perché secondo l’oracolo di Delfi fece cessare la malattia pestilenziale che Afflisse gli Ateniesi durante la guerra del Peloponneso.

Apollo Belvedere+Apollo OmphalosSe consideriamo l’Apollo del Belvedere di Leochares e quello dell’Omphalos di Calamide, entrambe le figure mostrano un corpo vigoroso, di proporzioni armoniose, con una postura elegante, ma niente affatto rilassata. Nulla a che vedere con l’efebico scavezzacollo dedito a imprese insignificanti quali infliggere sofferenze a piccoli animali.

Si aggiunga che anticamente v’era un secondo volto di Apollo tutt’altro che trascurabile: quello di punitore e vendicatore la cui collera risultava fatale a chi l’aveva causata. La strage di Niobidi e la pestilenza indotta tra gli Achei attraverso le sue frecce in reazione all’oltraggio subito dal suo sacerdote (primo libro dell’Iliade) ne sono due mirabili esempi.

Gli Ateniesi, e insieme a loro tutti i Greci, credevano che Helios/Apollo – fosse colui che “tutto vede e tutto ascolta”(Iliade, III, v. 277). Nulla sfuggiva alla sua divina conoscenza e nessuno poteva sottrarsi alla sua collera. Dopo la peste ad Atene le cause della sua ira nefasta dovettero apparire inafferrabili o sfumate in modo irreparabile: non v’era più la tracotanza o l’empietà degli uomini ad accenderla. La morte dei giusti accanto agli empi aveva spezzato il legame di causa-effetto che ancora rendeva -se non sopportabili- almeno comprensibili i terribili eventi che periodicamente falciavano gli uomini. Fu questo pensiero a suggerire le oscure parole di Marziale in uno dei pochi epigrammi che non risulti sfrontatamente esplicito?

EPIGRAMMATON, APOPHORETA CLXXII

Sauroctonos Corinthius

Ad te reptanti, puer insidiose, lacertae

Parce: cupit digitis illa perire tuis.

AL SAUROTTONO DI METALLO CORINZIO (3)

Risparmia la lucertola che striscia verso di te, o fanciullo insidioso:

non desidera altro che perire tra le tue dita.

Gli uomini, come la lucertola, si volgono al sole (Apollo) ansiosi di riceverne i raggi (le dita): così facendo attirano l’attenzione funesta di un dio impassibile e imprevedibile come un fanciullo.

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(1) L’unica prova del fatto che l’originale fosse di bronzo la possiamo rinvenire in Plinio [libro XXXIV, 69 della Naturalis Historia]: “Prassitele produsse prevalentemente in marmo e in questa categoria perciò fu il più famoso. Ad ogni modo fece opere bellissime anche in bronzo: […]fece anche un Apollo giovinetto che sta appostando da vicino con una freccia una lucertola strisciante furtiva: la chiamano il Sauroctonos.” Si noti come la descrizione sia molto vicina a quella di Marziale in “Sauroctonos Corinthius”.

(2) in una foto scattata da un utente di Wikipedia (Radomil Binek) nel sito del tempio di Apollo a Didima, si vede un tipico lucertolone locale il cui nome scientifico è “Laudakia stellio”. La bestiola ha dimensioni corrispondenti a quelle della lucertola scolpita nelle copie del Sauroctonos.

Foto Radomil Binek di uno stellione laudakia stellio tempio di Apollo a Didima

Foto Radomil Binek di uno stellione (laudakia stellio) presso il tempio di Apollo a Didima – licenza Creative Commons

(3) Va precisato che Corinthius sta ad indicare non tanto la provenienza quanto il materiale di cui è composta la statua: si tratta infatti del “metal corintio” già precisato da Ennio Quirino Visconti [“Monumenti scelti borghesiani”, Milano 1837]. Il metal corintio era una lega di bronzo argento e oro che secondo la leggenda si era formata del tutto casualmente a Corinto nel 146 a. C. per effetto dell’incendio appiccato dai Romani. Si veda a questo proposito anche quanto afferma Plinio nel libro XXXIV,6 della Naturalis Historia. È immaginabile che la riproduzione indicata da Marziale fosse di piccole dimensioni e forse anche molto diffusa.

 

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